Una giovinezza con Michele
Nota introduttiva di Arnaldo Bruschi
Mia nonna paterna era una Valori, sorella del nonno di Michele. Mio padre, da sempre e più che agli altri cugini, era legato a suo cugino Aldo, storico e giornalista. Ne condivideva specialmente gli interessi letterari, la passione dei libri (un'antica e ricorrente passione di famiglia) e il gusto della lettura. La famiglia Valori era, per noi, per tanti versi interessante. Una famiglia numerosa, ma di persone diversissime tra loro; a cominciare dal padre Aldo e dalla madre Etre. Una famiglia assai unita, tenuta insieme soprattutto dalla personalità fortissima, sicura e intransigente, della madre; ma anche una famiglia nella quale era possibile per ciascuno - e si respirava – la franca espressione di una spregiudicata libertà di pensiero; nella quale ciascuno poteva rimanere fedele a se stesso e alla propria vocazione: quella di magistrato o di medico, di padre gesuita o filosofo, di architetto o di attrice. Una famiglia nella quale ogni contraddizione poteva coesistere, essere accettata, purché motivata da una sincera spinta interiore. Da bambini, negli anni Trenta, non ci vedevamo, tuttavia, tanto frequentemente. Solo due o tre volte all'anno - quasi ritualmente - le nostre famiglie, al completo, si scambiavano visita. I Valori abitavano - allora mi sembrava - lontanissimo, nel quasi disabitato, a quel tempo, Viale delle Medaglie D'Oro. Prendevamo vari tram per raggiungerli. Era, per noi bambini, quasi un viaggio. Partivamo presto la mattina per arrivare un po' prima del pranzo.
Mia sorella ed io eravamo più piccoli - ma non molto - di Michele e Bice e giocavamo soprattutto nel loro giardino. Mi ricordo Michele - Michelino – da piccolissimo, vivacissimo e grassottello, correre con i calzoni corti; poi, non molto più tranquillo, con i calzoni "alla zuava", studente di ginnasio. Anche Bice era molto vivace, spiritosa. Scherzava e si agitava continuamente; ci portava – cosa proibitissima, ma segno di grande amore e complicità - a cogliere e succhiare certi fiori di un “suo” grande cespuglio. Quando invece erano i Valori a venire da noi, la massima attrazione, soprattutto per Michele, sembrava essere il grande studio di mio nonno materno scultore, in Viale Regina Margherita, presso il quale abitavamo. In realtà questo ambiente, disposto su più livelli, popolato di grandi statue e di bozzetti, ingombro di calchi, di cavalletti, di creta, di gesso, degli strumenti più misteriosi era – anche per me – un luogo affascinante, quasi un palazzo misterioso che rivelava impensabili sorprese. Ma Michele, un po' più grande, era anche molto attratto dalla libreria di famiglia: in particolare dalla collezione delle annate rilegate, dalla fine dell'Ottocento agli anni Trenta, dell'Illustrazione italiana, della Domenica del Corriere e della Tribuna illustrata. Allora Michele si metteva sorprendentemente tranquillo a sfogliare, senza stancarsi, i volumi di questi giornali (che più tardi, da mia madre, a lui furono regalati) ampliamenteillustrati e ricchi di notizie e di cronache (poi, talvolta, divenute storia). Qualche incontrammo a scuola, dai Gesuiti, dove pure studiava Michele.
Nei primi anni Quaranta, durante la guerra, ci vedevamo ancora più raramente. Ma sapevo che Michele, finito il liceo, frequentava Architettura e Bice l`Accademia d'Arte Drammatica. Anche per me, nel 1946, presa la licenza liceale, c'era il problema di cosa fare. Non avevo le idee chiare. Forse mi sarebbe piaciuto fare il pittore o lo scultore; forse l'architetto o lo storico dell'arte ma forse anche il medico o l'ingegnere. Fu così che chiesi aiuto a Michele. Da sempre mi divertivo con i colori e con la creta e disegnavo continuamente; anche architetture fantastiche. E dal ginnasio avevo cominciato a girare per Roma, per conoscere musei, chiese e palazzi. Ma non avevo la minima idea di che cosa fosse la Facoltà di Architettura. Michele, allora era già arrivato al quarto anno, era ormai un "anziano”, da tutti conosciuto in Facoltà. Mi fece un quadro non incoraggiante. Anche io mi iscrissi, senza troppo entusiasmo.Da allora i nostri rapporti si intensificarono moltissimo, fino a divenire quasi quotidiani: a scuola, a casa, nel tempo libero. Rapidamente Michele riuscì a trasmettermi il suo coinvolgente entusiasmo per l'architettura. Mi faceva vedere i progetti per i suoi ultimi esami di composizione della Facoltà. Ma le sue non erano esposizioni esteriori, formali. Mi illustrava le sue idee e le sue posizioni, i suoi intenti e la problematica delle soluzioni. In particolare, giorno dopo giorno, con la parola e con l'esempio, mi comunicava il sue metodo di progettazione: la rigorosa analisi del programma, la chiara impostazione del tema, i possibili esempi di riferimento, la critica delle possibili soluzioni, inizialmente studiate a mano libera ma sempre in scala, pensate subito nella tridimensionalità e nella loro materica concretezza, sempre verificate a margine – come un antico architetto – con moltipiccoli e rapidi schizzi assonometrici o prospettici. Voleva poi che gli sottoponessi le mie prime, estremamente timide e incerte, prove progettuali. Michele non interveniva con suggerimenti specifici ma, malgrado la sua semplicità e la limitatezza dei temi del mio primo e secondo anno, le sue parole – e il suo esempio – mi spronavano a tener conto, insieme, della distribuzione e del giusto dimensionamento delle parti, degli aspetti costruttivi e tecnologici ed anche di quelli esecutivi ed economici, senza perdere di vista i caratteri visivi del risultato. Al massimo esprimeva, con decisione, il suo disgusto per qualche mia ingenua e avventata soluzione e mi indicava qualche esempio – sempre moderno – da prendere in considerazione. Da lui, più che a scuola, ho imparato, praticamente e attraverso l'esempio, le basi del mestiere di progettare.
Appena laureato - ricordo bene il giorno della sua laurea – Michele mi aveva subito chiamato, studente del terzo o quarto anno, per aiutarlo in qualche suo primo piccolo lavoro professionale; come la progettazione, con i suoi arredi e completamenti, dell'aula consiliare del Comune di Civitacastellana (per la quale seguii anche con il falegname l'esecuzione del prototipo in legno dei seggi del sindaco e dei consiglieri). Ci vedevamo il tardo pomeriggio o dopo cena, nella casa dei Valori a Piazza Cavour, poi suo studio. Michele mi illustrava alcune sue idee sinteticamente schizzate a matita. Lo ascoltavo con grande ammirazione. Sembrava che avesse subito le idee chiare sull'impostazione e sui caratteri della soluzione. Seduti uno accanto all'altro, discutevamo i problemi. Via via il progetto prendeva forma. Mentre egli continuava a studiare soluzioni particolari, io, al tavolo da disegno, iniziavo a mettere in pulito i suoi disegni. Già prima, da lui -più che a scuola - avevo imparato i segreti delle carte e degli inchiostri, dei pennini e dei compassi. Mi aveva insegnato a "grattare"gli errori, con la lametta, con gesto – egli diceva - "ampio e solenne", senza bucare la carta.
Talvolta c'era da lavorare molto, fino alle prime ore del mattino, per giungere in tempo per la consegna o per la scadenza di un concorso. Senza interrompere per vacanze o feste: anche questo era per me educativo. Ricordo di aver passato la notte di Natale, forse del 1949 o del 1950, per finire di disegnare a penna, il progetto a tipologia a trifoglio pensata da Michele per I'INA casa. Al tavolo accanto, il mio amico Renato Amaturo completava il modellino in legno – poi tante volte fotografato e riprodotto - dello snodo dimostrativo delle possibilità urbana implicite nello schema. Intanto Michele revisionava e completava le tavole preparate nei giorni precedenti. Lavoravamo in silenzio. Erano ore pesanti ma le ricordo piene di speranza. Erano ore felici. Come si sa questo tipo edilizio progettato da Michele per I'INA casa – di grande raffinatezza e intelligenza progettuale al di là della semplicità dello schema – fu poi ripreso e costruito dallo stesso Michele, con Ridolfi, Quaroni, Fiorentino, Gorio, nel complesso INA casa del Tiburtino. Soprattutto a questi architetti egli era, anche in precedenza, legato; oltre che, in particolare, ai suoi colleghi di corso Leonardo Benevolo, Carlo Melograni, Gianpaolo Rotondi e Piero Lugli. Anch'io, già a quel tempo, fui introdotto da Michele nel loro ambiente – anche fuori della Facoltà – ed essi, forse più che i colleghi del mio corso, divennero i miei amici. Andavo talvolta a lavorare nei loro studi, visitavamo i primi loro cantieri.
Con questi amici ci vedevamo nel tempo libero. Spesso, dopo cena, andavamo al cinema e non di rado continuavamo in birreria discussioni interminabili sull'architettura, sul film appena visto, sulle ultime mostre d'arte, sugli ultimi libri letti. Ma erano, talvolta, anche discussioni di politica, di religione, di filosofia. Michele aveva sempre una sua opinione originale, personale, qualche volta paradossale e imprevedibile; animava la discussione con motti di spirito, con citazioni bizzarre, con giochi di parole (qualche volta a gara con Federico Gorio), con aneddoti divertenti, non di rado accompagnati da una mimica espressiva estesa a tutto il corpo. Il divertimento e l'allegria raggiungevano il massimo quando, in trattoria, la comitiva si allargava con la partecipazione di Bice, di Paolo Panelli e dei loro amici attori.
Più spesso - e anche dopo, almeno fino ai primi Anni Sessanta - Michele ed io ci vedevamo la sera, generalmente per vedere qualche film ma, soprattutto per parlare, per stare insieme. Quasi sempre mi accompagnava a casa e restavamo per ore, in macchina, anche nelle fredde o piovose giornate d'inverno, a parlare: di tutto; anche delnostro lavoro e dell'architettura: ma soprattutto della nostra vita, dei nostri desideri, delle nostre gioie, dei nostri affetti e delle nostre antipatie, delle nostre delusioni; dei nostri problemi e delle nostre speranze. Allora Michele si apriva con me, senza riserve mi comunicava il suo nascosto e forse per molti insospettabile disagio di vivere, la sua profonda malinconia, la sua insaziabile nostalgia di affetti e insieme il suo irrequieto, fiducioso entusiasmo per la vita. Variabilissimo di umore, subiva alti e bassi imprevedibili, ma al pessimismo più nero reagiva con corrosiva, amara autoironia o, con la sua consueta vitalità, cercava di dissipare le nuvole con vivaci, frizzanti motti di. spirito. Ma era anche allora che talvolta affiorava una sua pudica ma profonda religiosità: libera, decantata, spregiudicata ma sicura e, come quella di sua madre, inflessibile; alimentata dal senso del mistero, del sacro; messa a confronto conla scomoda realtà del mondo e degli uomini, ma consapevole della limitatezza umana.
Intanto, poco dopo la mia laurea, senza esitazione accettai l'invito di Michele a lavorare professionalmente con lui, rifiutando l'invito di Saverio Muratori e poi quello di Mario Fiorentino. Allora parecchi lavori ci impegnarono insieme: progetti di concorso - come quello per la sistemazione della pineta di Donoratico - o per incarico pubblico - come i varii progetti di complessi di edilizia “economica e popolare ", a Brindisi, a Trapani, a Catania - o per incarico privato - talvolta affidati a Michele, come una villa, mai costruita, per Marcello Mastroianni; o da me procurati, come due palazzine per una cooperativa INA casa a S. Marinella, delle quali, assistito da Michele, feci per la prima volta la direzione dei lavori. Allora a studio e ancora - più a lungo e più intensamente - durante le nostre serate dopo il cinema, Michele mi parlava anche delle sue convinzioni, delle sue idee e delle sue ambizioni come architetto. Erano per lo più osservazioni rapide, battute estemporanee, brevi considerazioni occasionali slegate, spesso paradossali o, apparentemente contraddittorie: “la geometria, l'ordine geometrico è sempre stato alla base di ogni grande architettura”; “le forme più espressive sono quelle dei solidi poligonali, tridimensionali, insieme calme e mobili”; “il mio ideale sarebbe quello di fare una piccola casa come la disegnano i bambini, con un portoncino e due finestrine ma in cui tutto sianecessario e proporzionato in modo giusto, appropriato, naturale e senza forzature”; "ma perché non si potrebbe fare una chiesa moderna, modernissima, ma con tante cupole visibili da lontano?" "il compito dell'architetto è in fondo quello di mettere in ordine case, strade, città"; "quando si progetta, la cosa più importante è quella di azzeccare la "scala" giusta, appropriata per quella o specifica occasione, questa è pure la cosa più difficile". Erano idee, posizioni, inclinazioni di gusto che sottendevano posizioni a lungo maturate e - configuravano una "poetica" singolarmente personale - strettamente legata alla sua complessa, ma ben delineata personalità umana e che in fondo trovavano il loro primo fondamento su solidissime basi etiche che l'obbligavano ad un impegno vigile e responsabile nel lavoro e, in generale, ad una sincerità assoluta verso sè stesso e verso gli altri. Da questofondamento etico derivava la sua intransigente adesione al movimento moderno, - senza riserve o compromessi, ma anche la sua ricerca della "qualità". Da qui derivava pure l'estensione del suo impegno all'organizzazione delta città e la sua scelta per l'urbanistica. Ma Michele era e rimaneva soprattutto un architetto, a suo modo un architetto "artista", naturalmente dotato di una sua sensibilità, pudica e sottile, ma creativamente prorompente per gli spazi e per le forme.
Un tratto caratteristico, distintivo del suo carattere, era la sua ricerca, il suo bisogno – quasi fisico - di ordine. Ricordo che forse l'unica occasione nella quale ci fu uno scontro tra di noi fu il pomeriggio precedente il giorno improrogabile di un lavoro nel quale eravamo impegnati da mesi. Eravamo molto indietro. Lo studio era in grande disordine. In quattro o cinque, ciascuno al proprio tavolo, cercavamo di completare i disegni, ancora mancanti di rifiniture, di misure, di scritte, ancora con parti da correggere. C'era poi da fare le copie cianografiche, fare il pacco da consegnare. A un tratto vidi Michele alzarsi dal suo tavolo e ordinare a tutti, con estrema decisione, di interrompere il lavoro, di uscire, di tornare solo dopo tre ore. Credetti che fosse impazzito improvvisamente. Anche lavorando tutta la notte, perdere tre ore ci faceva rischiare di non arrivare in tempo. Lo guardammo tutti esterrefatti. Con la massima calma ci disse che, prima di proseguire, doveva mettere in ordine lo studio. Gli altri uscirono. Io protestai vivacemente domandandogli se era cosciente della drammaticità della situazione. Ma Michele era irremovibile. Mi rifugiai in un angolo, impossibilitato a continuare. Vidi che Michele, con metodo e pignoleria, sgombrava tutti i tavoli e tutti i piani di appoggio, li spazzolava sistematicamente con cura, ammucchiava i disegni in un ordine rigoroso, allineava matite, gomme, penne, raggruppava righe, squadre e compassi. In questo lavoro non voleva essere aiutato; ma via via lo vedevo rilassarsi, cominciare a sorridere e infine concludere la sua fatica con un allegro motto di spirito. Lo studio era in ordine perfetto. Ora lui, e tutti noi, potevamo continuare e finire il lavoro.
Questo intimo bisogno di “ordine”, che coinvolgeva la sfera etica a quella esistenziale, lasciava anche le sue tracce nelle architetture di Michele. Un ordine interno - ogni cosa, di dimensione e forma appropriata, al sue giusto posto nell'organizzazione dell'insieme – "è ciò che è più importante", diceva, "in ogni architettura; ed è tanto più importante quanto meno si vede. Ma che poi”, aggiungeva, “alla fine si vede". A lui che bollava sprezzantemente come "anticoidi” ogni esteriore anche minima concessione a forme tradizionali o al folklore, quest'”ordine" - strutturale, distributivo, geometrico, visivo - sembrava l'eredità "nascosta" caratterizzante la tradizione italiana e il segreto della sua qualità. Questa tradizione per lui, di origine fiorentina, era soprattutto quella toscana e raggiungeva il culmine nel Quattrocento, specialmente nel Brunelleschi; ma talvolta la definiva "greca" e la trovava pure nel Borromini.
Per far risaltare quest'ordine segreto, interno e profondo, mai rigido, meccanico, convenzionale, Michele tendeva alla massima semplicità, ricercava una secca essenzialità, una schietta, "naturale" ma scarna eleganza. Al tempo stesso lui, non solo culturalmente raffinatissimo, considerava una debolezza – inutile e immorale - ogni esagerata raffinatezza di forme. Etica ed estetica gli sembravano inscindibili. Più tardi, dalla seconda metà degli anni Sessanta, i nostri rapporti iniziarono ad allentarsi. Non per nostra volontà. Ciascuno era preso da impegni nuovi e diversi, da diverse occasioni di lavoro e di incontro. E tuttavia Michele è rimasto per me, fino alla morte e anche ora, un punto di riferimento essenziale, una guida ideale. Mi rimane il ricordo della sua pudica ma calda affettuosità e quello di un uomo estremamente sensibile ed intelligente, al quale sono molto debitore.